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L'archivio del periodico fondato nel 1972
dal Direttore Antonio Pirisi - On line dal 2001
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RACCONTI

di Antonio Pirisi
PER I BAMBINI DE “LU CARRE’ DE LA MALZET”
ERA FELICITA’ ANCHE FARE UN GIRO IN CALESSE
O “CIUCCIARE” IL CONCENTRATO DI POMODORO DI “CIA’ GIUANNICHETTA”

Alghero, 2 gennaio 2021

Mariagnese Ibba rispondendo su fb, a sua volta, ad una mia risposta al suo commento a “L’alluvione di Bitti – Quello di Alghero del‘46 e il piccolo “miracolo” di Padre Manzella” scrive: “… il nostro oliveto dove ci rifugiammo durante la guerra, confinante con Bonaria sulla strada per scala Piccada lo vendemmo a quella che aveva generi alimentari proprio dove ora c'è la rivendita dei coralli e gioielli di cui lei parla, non ricordo più il nome della signora”. Uno spunto che mi spinge a raccontare alcuni momenti della mia fanciullezza vissuti in via Roma, “Lu Carré de La Malzet” (algherese parlato).

Il negozio di alimentari “la buttiga del pà” che ho conosciuto era proprio davanti alla mia abitazione, nei locali della vecchia Chiesa della Mercede, parte del convento dei Frati Mercedari che comprendeva gli edifici che si affacciano su via Roma, piazza Porta Terra e via Columbano. Qui, nel palazzo abitato dal Notaio Manca, ancora allora esisteva una piccola cupola. Al negozio si accedeva da un grande portone ad arco, di legno, originale, con dei rosoni in bassorilievo. Al mattino presto, al secondo piano del nostro palazzo a tre piani, dalla mia stanza enorme, con due finestre che davano sulla strada, sentivo il cigolare dei cardini e il “suono” del ferro d’appoggio di metà anta che tintinnava lasciato andare contro il muro. “Cià Giuannichetta” Nieddu aveva appena aperto la sua attività ai primi clienti; erano soprattutto “campagnorus”, che dopo aver acquistato il pane (lu pà pugnat) appena portato dal forno, stazionavano davanti alla Torre di Porta Terra in attesa del “duegnu” che offrisse loro una giornata di lavoro nei campi. Tra i tanti piacevoli profumi che potevi “annusare” in negozio (pane caldo, farine, pasta, spezie, ecc.) stranamente a me piaceva quello del “baccalà” salato che nel “periodo suo” veniva esposto anche in ammollo in una bacinella all’ingresso. Tra gli innumerevoli personaggi curiosi che si incontravano facendo la spesa ricordo in particolare un’anziana signora vestita di nero, col fazzoletto nero in testa, tremava tutta, insieme alle mani annerite dal sole (ai bambini incuteva molta paura), guarda caso soprannominata “La tramurosa”. Vendeva polpi (ancora vivi) e murene pescati da lei, tenendoli in una grande “aspolta”, una specie di borsa fatta con un intreccio di “palma nana”.

Quasi all’ora di pranzo, un elemento che mancava spesso all’ultimo momento in cucina per condire o colorare un sugo con i pomodori freschi passati, il brodo di carne o la “copazza” di pesce a base di pomodoro secco pestato era il “concentrato”, l’estratto di conserva di pomodoro, appunto. Il compito di andarlo a comprare di corsa da “Cià Giuannichetta” era affidato ai più piccoli delle nostre tre famiglie che abitavano il palazzo di via Roma. “Vai a prendere 10 lire di “concentrato”, torna subito e non -ciucciare-”, era il comando. “Cià Giuannichetta” prendeva un foglio di “carta oleata” con la sinistra e con una spatola ci faceva scivolare sopra un po' di “concentrato”, a “occhio” senza pesarlo, poi arrotolava con cura il fagottino a mò di un tubicino chiudendolo con una piega alle due estremità. Immancabilmente andando su per le scale di casa si svolgeva il rito della “ciucciata”: si apriva la piega da un lato e si schiacciava il tubicino come quello del dentifricio. Una delizia! Poi si richiudeva, anche noi con cura, ma l’innocente peccato di gola veniva sempre scoperto subito.

Il marito di “Cià Giuannichetta”, Pietrino Chessa era un “uomo di campagna” come si diceva una volta, ma sempre elegante e in “tiro” in città. I coniugi avevano tre figli: Rita, Tecla e Paolo, il simpaticissimo (famose le sue barzellette raccontate alla “Luciola”) padre di Giorgio e Giulio Chessa (Totosport). “Zio Pietrino”, come lo chiamavamo noi bambini, aveva un calesse trainato da una cavalla bianca. La sera tornando da campagna, con i gambali sempre tirati a lucido e la “coppola” in testa sostava per un po' davanti al negozio della moglie prima di recarsi alla stalla situata lì vicino in vicolo Adami, “Lu Polciu”, parallela a Via Roma, dietro il palazzo dei Peretti, dove i Chessa abitavano al primo piano. Quasi tutte le sere, nelle belle stagioni, faceva salire sul calesse due bambini per volta per percorrere il tragitto dal negozio alla stalla. In competizione per quel posto ambito oltre me c’erano i miei cuginetti: Piero, Nando, Mariuccia e Rina ed anche Franco Fadda (Pagabera) che abitava proprio sopra il negozio al primo piano. Potete immaginare l’emozione e il cuore a mille ogni volta che salivamo “a cassetta”.
Ricordo che Franco era un ragazzino particolare: tornado da scuola, alle elementari, lanciava la cartella “di cartone similpelle” dentro il portone a fianco del negozio di “Cià Giuannichetta” e percorreva tutta via Roma in discesa “camminando” con le mani per terra, sopra le rotaie di granito bianco in mezzo all’acciottolato “las ginchettas”, a testa in giù e le gambe in aria, sotto lo sguardo incuriosito dei passanti.
L’amico Giorgio gentilmente questi giorni mi ha raccontato: “Nonno durante la guerra era della Brigata Sassari, pluri decorato. Altra cosa che non sanno in molti, nonno fu arrestato perché pubblicamente dichiarò che avrebbe bruciato il grano pur di non darlo a Mussolini”. Che Nonno!
“Zio Pietrino” aveva tre fratelli: Michele, Salvatore il macellaio e Efisio più conosciuto come “Padre Ghessa”, proprietario di molti olivetti in Alghero e curatore di quelli (tanti) della Curia Vescovile algherese. Forse il terreno a cui si riferisce Mariagnese Ibba era stato acquistato proprio da “Padre Ghessa”. Di Efisio Chessa e del suo piglio imprenditoriale tutti sapevano ad Alghero. Si raccontava che controllasse che non fosse rimasta una sola oliva per terra dopo il passaggio dei raccoglitori.

Su Alghero Cronache il nostro Michelino Chessa, nella rubrica degli anni 70-80 “Mun Bisaiu sempra dieva”, descrivendo il mondo rurale algherese, e in particolare quello delle raccoglitrici e raccoglitori di olive, scrive: “Dopo una dura giornata di lavoro inginocchiati per terra, rientravano in città cantando in allegria la canzone “Gian tan fet cap caldaru” in onore (ma anche a sfottò) di colui o colei che durante la giornata aveva raccolto più olive degli altri”. Il premio incentivante di quei tempi.

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- "Zio" Pietrino Chessa elegantissimo e i bimbi felicissimi e impettiti nel loro bel pagliaccetto e capellino bianco

- (Courtesy) -
Giorgio Chessa


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