di
Antonio Pirisi
PER I BAMBINI DE “LU
CARRE’ DE LA MALZET”
ERA FELICITA’ ANCHE FARE UN GIRO
IN CALESSE
O “CIUCCIARE” IL CONCENTRATO DI
POMODORO DI “CIA’ GIUANNICHETTA”
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Alghero,
2 gennaio 2021
Mariagnese
Ibba rispondendo su fb, a sua volta, ad una mia risposta
al suo commento a “L’alluvione di Bitti – Quello di
Alghero del‘46 e il piccolo “miracolo” di Padre Manzella”
scrive: “… il nostro oliveto dove ci rifugiammo durante
la guerra, confinante con Bonaria sulla strada per
scala Piccada lo vendemmo a quella che aveva generi
alimentari proprio dove ora c'è la rivendita dei coralli
e gioielli di cui lei parla, non ricordo più il nome
della signora”. Uno spunto che mi spinge a raccontare
alcuni momenti della mia fanciullezza vissuti in via
Roma, “Lu Carré de La Malzet” (algherese parlato).
Il negozio di alimentari “la buttiga del pà” che ho
conosciuto era proprio davanti alla mia abitazione,
nei locali della vecchia Chiesa della Mercede, parte
del convento dei Frati Mercedari che comprendeva gli
edifici che si affacciano su via Roma, piazza Porta
Terra e via Columbano. Qui, nel palazzo abitato dal
Notaio Manca, ancora allora esisteva una piccola cupola.
Al negozio si accedeva da un grande portone ad arco,
di legno, originale, con dei rosoni in bassorilievo.
Al mattino presto, al secondo piano del nostro palazzo
a tre piani, dalla mia stanza enorme, con due finestre
che davano sulla strada, sentivo il cigolare dei cardini
e il “suono” del ferro d’appoggio di metà anta che
tintinnava lasciato andare contro il muro. “Cià Giuannichetta”
Nieddu aveva appena aperto la sua attività ai primi
clienti; erano soprattutto “campagnorus”, che dopo
aver acquistato il pane (lu pà pugnat) appena portato
dal forno, stazionavano davanti alla Torre di Porta
Terra in attesa del “duegnu” che offrisse loro una
giornata di lavoro nei campi. Tra i tanti piacevoli
profumi che potevi “annusare” in negozio (pane caldo,
farine, pasta, spezie, ecc.) stranamente a me piaceva
quello del “baccalà” salato che nel “periodo suo”
veniva esposto anche in ammollo in una bacinella all’ingresso.
Tra gli innumerevoli personaggi curiosi che si incontravano
facendo la spesa ricordo in particolare un’anziana
signora vestita di nero, col fazzoletto nero in testa,
tremava tutta, insieme alle mani annerite dal sole
(ai bambini incuteva molta paura), guarda caso soprannominata
“La tramurosa”. Vendeva polpi (ancora vivi) e murene
pescati da lei, tenendoli in una grande “aspolta”,
una specie di borsa fatta con un intreccio di “palma
nana”.
Quasi
all’ora di pranzo, un elemento che mancava spesso
all’ultimo momento in cucina per condire o colorare
un sugo con i pomodori freschi passati, il brodo di
carne o la “copazza” di pesce a base di pomodoro secco
pestato era il “concentrato”, l’estratto di conserva
di pomodoro, appunto. Il compito di andarlo a comprare
di corsa da “Cià Giuannichetta” era affidato ai più
piccoli delle nostre tre famiglie che abitavano il
palazzo di via Roma. “Vai a prendere 10 lire di “concentrato”,
torna subito e non -ciucciare-”, era il comando. “Cià
Giuannichetta” prendeva un foglio di “carta oleata”
con la sinistra e con una spatola ci faceva scivolare
sopra un po' di “concentrato”, a “occhio” senza pesarlo,
poi arrotolava con cura il fagottino a mò di un tubicino
chiudendolo con una piega alle due estremità. Immancabilmente
andando su per le scale di casa si svolgeva il rito
della “ciucciata”: si apriva la piega da un lato e
si schiacciava il tubicino come quello del dentifricio.
Una delizia! Poi si richiudeva, anche noi con cura,
ma l’innocente peccato di gola veniva sempre scoperto
subito.
Il marito di “Cià Giuannichetta”, Pietrino Chessa
era un “uomo di campagna” come si diceva una volta,
ma sempre elegante e in “tiro” in città. I coniugi
avevano tre figli: Rita, Tecla e Paolo, il simpaticissimo
(famose le sue barzellette raccontate alla “Luciola”)
padre di Giorgio e Giulio Chessa (Totosport). “Zio
Pietrino”, come lo chiamavamo noi bambini, aveva un
calesse trainato da una cavalla bianca. La sera tornando
da campagna, con i gambali sempre tirati a lucido
e la “coppola” in testa sostava per un po' davanti
al negozio della moglie prima di recarsi alla stalla
situata lì vicino in vicolo Adami, “Lu Polciu”, parallela
a Via Roma, dietro il palazzo dei Peretti, dove i
Chessa abitavano al primo piano. Quasi tutte le sere,
nelle belle stagioni, faceva salire sul calesse due
bambini per volta per percorrere il tragitto dal negozio
alla stalla. In competizione per quel posto ambito
oltre me c’erano i miei cuginetti: Piero, Nando, Mariuccia
e Rina ed anche Franco Fadda (Pagabera) che abitava
proprio sopra il negozio al primo piano. Potete immaginare
l’emozione e il cuore a mille ogni volta che salivamo
“a cassetta”.
Ricordo che Franco era un ragazzino particolare: tornado
da scuola, alle elementari, lanciava la cartella “di
cartone similpelle” dentro il portone a fianco del
negozio di “Cià Giuannichetta” e percorreva tutta
via Roma in discesa “camminando” con le mani per terra,
sopra le rotaie di granito bianco in mezzo all’acciottolato
“las ginchettas”, a testa in giù e le gambe in aria,
sotto lo sguardo incuriosito dei passanti.
L’amico Giorgio gentilmente questi giorni mi ha raccontato:
“Nonno durante la guerra era della Brigata Sassari,
pluri decorato. Altra cosa che non sanno in molti,
nonno fu arrestato perché pubblicamente dichiarò che
avrebbe bruciato il grano pur di non darlo a Mussolini”.
Che Nonno!
“Zio Pietrino” aveva tre fratelli: Michele, Salvatore
il macellaio e Efisio più conosciuto come “Padre Ghessa”,
proprietario di molti olivetti in Alghero e curatore
di quelli (tanti) della Curia Vescovile algherese.
Forse il terreno a cui si riferisce Mariagnese Ibba
era stato acquistato proprio da “Padre Ghessa”. Di
Efisio Chessa e del suo piglio imprenditoriale tutti
sapevano ad Alghero. Si raccontava che controllasse
che non fosse rimasta una sola oliva per terra dopo
il passaggio dei raccoglitori.
Su Alghero Cronache il nostro Michelino Chessa, nella
rubrica degli anni 70-80 “Mun Bisaiu sempra dieva”,
descrivendo il mondo rurale algherese, e in particolare
quello delle raccoglitrici e raccoglitori di olive,
scrive: “Dopo una dura giornata di lavoro inginocchiati
per terra, rientravano in città cantando in allegria
la canzone “Gian tan fet cap caldaru” in onore (ma
anche a sfottò) di colui o colei che durante la giornata
aveva raccolto più olive degli altri”. Il premio incentivante
di quei tempi.