Xdi
Antonio
Pirisi
UNA FOTO - UN RICORDO - PICCOLE STORIE
FAMILIARI E LA FETTINA DA “ZIO” UMBERTO
TEDDE CHE AUMENTA IL PREZZO
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Alghero,
2 gennaio 2021
Questi
giorni di feste e di zona rossa, navigando su internet
ho scoperto su fb “Diari alguerés”: “És un programa
ideat i conduit de Giancarlo Sanna, realització
de fotos i videos a càrrec de Paolo Calaresu”. Una
foto in particolare mi ha emozionato e commosso
allo stesso tempo, questa che ritrae la famiglia
Simula (Sigaretta) davanti al loro negozio di articoli
sardi, in via Roma, locale acquistato da mio zio
Antonio (Padrino) e mio nonno Salvatore Scarpa,
dove da tanti anni avevano la calzoleria.
A
fianco, a destra, il portone da cui si accedeva
agli appartamenti del palazzo a tre piani, acquistato
da nonno e nonna Giovanna Dore nel 1928, dai "Salaris"
(una famiglia facoltosa algherese che era andata
a vivere a Sassari o a Cagliari), quando si trasferirono
da Ittiri, dopo aver venduto in paese la loro grande
casa al “Corso”, la campagna a “Poschis” e l’asina
“Chichina”. Con se portarono ad Alghero oltre i
tre figli: mamma, Maria (12 anni), zia Francesca
e Antonio, i mobili, le altre masserizie e anche
il maiale vivo (oltre un quintale), che nei paesi
era uso allevare in casa e una decina di galline
col gallo, che trovarono alloggio nelle casette
del grande cortile al primo piano (sede dei giochi
dei più piccoli della grande famiglia).
Poco
per volta “Peppino Sigaretta” acquisterà tutto il
palazzo. Con Franco, il figlio con cui ho frequentato
alcune scuole, c’è stato sempre un un rapporto di
fraterna amicizia, mi chiama ancora “cugì”. Insieme
abbiamo condiviso molte esperienze gratificanti,
lui come collaboratore di Alghero Cronache e al
tempo organizzatore della manifestazione mi ha concesso
di divulgare dal periodico i testi delle canzoni
partecipanti ad alcuni “Festival della canzone algherese”.
Al
primo piano abitavano zia Francesca col marito Salvatore
Cadeddu, algherese, della famiglia Cadeddu-Trova.
Ho conosciuto la mamma, quasi centenaria che chiamavano
"Cià Catarina Canté". Zio
Salvatore era un importante imprenditore edile;
col fratello Nicolino ha partecipato tra l’altro
alla costruzione dell’attuale Cimitero, della Chiesa
della Mercede, del palazzo del dentista Pinna, padre
del dentista Antonio e dell’architetto Enrico, in
piazza della Mercede, delle case coloniche dell’Arenosu
e alla ristrutturazione del “Castello Las Tronas”,
posseduto a quel tempo da “Donna Emilia Mannu”.
Con loro i 5 figli: Uccio, Nanna, Rina, Mariuccia
e Tonio.
Al
secondo piano abitavo io con mamma, vedova e nonno,
vedovo. Nonna Dore soffriva di cuore e si è spenta
pochi anni dopo l’arrivo ad Alghero. Mio padre giovanissimo
si arruolò nell’arma dei Carabinieri a Cavallo.
Tornato gravemente ammalato dalla guerra in Affrica
Orientale (battaglia di Culqualber combattuta in
Abissinia, l'attuale Etiopia, dal 6 agosto al 21
novembre 1941) si congedò e passò impiegato all’INPS
di Sassari. Quando se ne andò nel maggio del ‘47
avevo solo sette mesi. La passione per i cavalli
fin da piccolo, quando marinava la scuola per andare
ad assistere, nelle aie, all’addomesticamento dei
cavalli a Villanova Monteleone, dove era nato, lo
portò a coronare il suo sogno, arrivando a diventare
istruttore degli allievi dei carabinieri a cavallo
della caserma Salvo D'Acquisto, su viale di Tor
di Quinto a Roma, che partecipavano alla tradizionale
esibizione del Gruppo Squadroni in Piazza di Siena
(Carosello storico dell'Arma dei Carabinieri). All’epoca,
da Roma tornava in Sardegna ogni anno, nella sua
Villanova, inviato dal Comando Generale, per selezionare
e acquistare nuovi cavalli.
All’ultimo piano Padrino e Madrina, Giovanna Maria
Deriu di Villanova Monteleone, “generavano figli”:
ben nove! Gavina, Tore, Giovanna, Angelo, Rosalba,
Piero, Nando, Vittoria e Andrea sono stati il frutto
di un grande amore durato una vita. Una delle ragioni?
ché la sera, soprattutto d’inverno, spegnendosi
il fuoco di “carbonella” nel grande braciere appoggiato
alla “ruota” di legno (tutti attorno a scaldarsi),
terminati i racconti, senza televisione, si finiva
presto sotto le coperte. E dire che madrina aveva
delle gestazioni complicate. Per lunghi mesi era
costretta a letto prima e dopo il parto, così che
mamma si è trovata spesso a doverla assistere ed
“allevare” alcuni pargoletti, che crescendo le sono
stati sempre riconoscenti. Madrina cucinava la selvaggina
in maniera “divina”. Lepri, conigli, pernici, cinghiale,
ricci (porcospino) e perfino le volpi, cacciate
da padrino con l’ausilio del fedelissimo “Febo”,
nelle sue pentole diventavano delle leccornie. Il
profumo delle sue pietanze “alla cacciatora” invadeva
le scale e le nostre stanze al piano inferiore.
L’acquolina in bocca veniva sempre appagata con
una porzione di prelibatezza... “per Tonio”.
A
proposito di cucina. A sinistra della foto d’avanti
al signore in piedi, all’inizio di via Roma, c’era
l’ingresso della macelleria di “Zio Umberto” Tedde
e del figlio Vittorio, rispettivamente nonno e padre
di Marco Tedde, ex sindaco. Da piccolo, in età scolare,
almeno un paio di volte alla settimana mamma mi
mandava con “cento lire” a comprare “la fettina”
nella vicina macelleria. Durante le belle stagioni,
fuori, su una grande panca di legno, alle spalle
la facciata rivestita di marmo verde, tra l'ingresso
e una grande vetrina, sedeva “Zio Umberto” nel suo
abito di velluto marrone e pure col berretto marrone
che sollevava appena per salutare ogni volta qualcuno,
succhiando una caramella intratteneva con una battuta
i passanti e i clienti e offriva una caramella ai
loro bambini.
Immancabilmente
offriva anche a me una caramella e mi faceva sedere
sulla panca a chiacchierare con lui, dopo che Signor
Vittorio mi aveva tagliato la fettina. Spesso con
la mia parlantina mi attardavo (e la fettina si
scaldava in mano), allora mamma mi chiamava dalla
finestra del secondo piano “Tonio, Tonio, sali...”.
Di corsa facevo i pochi metri che separavano la
macelleria dal mio portone, tanto di corsa che spesso
si sfilavano i sandaletti acquistati con un numero
più grande (magari nel negozio di Ibba al Corso)
perché tanto... il piede “doveva crescere”. Da bambino
l’impressione che provavo entrando nel locale tutto
piastrellato di bianco, il banco altissimo anch’esso
di mattonelle bianche, bianco anche il soffitto
inarrivabile, era quella di stare quasi in un tempio,
se non fosse che al lato destro e dietro le spalle
di Signor Vittorio da un tubo in acciaio inossidabile
che correva lungo la parete, dai ganci, pendevano
i “quarti” di manzo, di vitello, di vacca, di suino
e le mezzene di pecora, trasportati a spalle dal
vicino mattatoio, al piano terra della Torre di
Porta Terra. In particolare sulla destra di Signor
Vittorio c’era sempre appeso un fascio di salsiccia
fresca arrotolata (come la pompa del giardino) e
di salsicciotti, quanto bastava perché tutta la
macelleria profumasse di spezie. Sotto le feste
di Natale e Capo d’Anno, ma anche in prossimità
della Pasqua, il profumo cambiava. Al posto dei
“quarti” nella macelleria di “Zio Umberto” venivano
esposti gli agnellini, avvolti nella “nappa” bianchissima
intercalati da mazzi di frasche di alloro e di mirto
con le bacche che emanavano le gradevoli essenze
che annunciavano la festa.
Ricordo
che un giorno, dopo avermi tagliato la fettina,
Signor Vittorio, sporgendosi dal bancone ed io in
punta di piedi per arrivare a prendere l’involtino
di carta gialla mi fa: “Tonio dì a mamma che da
oggi la fettina costa 150 lire, perché la carne
è aumentata”. A onore e merito di Signor Vittorio
dalla volta successiva e per qualche tempo la fettina
era diventata un pò più grande. Ma io non avevo
capito lo stesso che “l’inflazione” degli anni cinquanta
era ormai decollata.
(aggiornato
il 4 dicembre 2021)